Nota di Domenico Mazzullo su “Cumparsita”

Quando Nicola Viceconti, mi ha chiesto, pur senza conoscermi, alcuni giorni addietro, di scrivere qualche riga di presentazione per il Suo libro “Cumparsita”, ho accettato subito con entusiasmo cedendo alla lusinga del compito, ma successivamente, leggendo il manoscritto che mi aveva fatto pervenire, accanto al piacere della lettura, via via che essa progrediva, mi chiedevo sempre con maggior dubbio, a che titolo e con quale diritto io mi potessi avventurare nella presentazione della Sua Opera. Presentare un libro che narra dell’Argentina e di Buenos Aires, proprio io che non amo viaggiare, almeno fisicamente e che non ho mai varcato i confini della vecchia Europa? Presentare un libro che ha, accanto ai personaggi protagonisti viventi e reali, umani, un protagonista non umano, ma non per questo meno vivente e reale, il Tango, proprio io che non so ballare e meno che meno il Tango? Forse solo perché mia madre era lucana, di Potenza e il libro narra di emigrati italiani, lucani in Argentina? Troppo poco. Forse perche nel libro sono nominati e citati luoghi della Basilicata, che conobbi bambino assieme a mia mamma, in un suo viaggio della memoria? Troppo poco.Forse perché il protagonista, l’io narrante del libro, Domenico Labriola, si chiama Domenico, come me? Troppo poco. Forse perché Domenico fuma il sigaro e ama la ritualità di questo e della degustazione del caffè, proprio come me? Troppo poco. Forse perché, grazie alla magia del nome, mi sento di somigliare un poco a Domenico, nel Suo gusto del ricordare, nella Sua soffusa e malinconica nostalgia della memoria, nel desiderio di tirare una ultima beffa al destino e alla morte, decidendo io quando “è il momento di chiudere gli occhi per riposare un po’”.“Se potessi, vorrei decidere io quando è il momento. Così me ne andrei lasciando ogni cosa in ordine. Questa sì che sarebbe una bella beffa al destino e alla morte. Mi premunirei di chiudere bene il rubinetto dell’acqua, svuoterei la cassetta della posta, fumerei senza fretta il mio ultimo sigaro e certamente troverei il modo di concludere quello che ho scritto finora.”. Potrei aver scritto io queste parole e invece le ha scritte il mio omonimo, Domenico Labriola, per mano del Suo Autore. E così le domande e gli interrogativi potrebbero succedersi ancora senza sosta e a lungo, con una unica, solitaria, desolante risposta: Troppo poco.

Facendo un severo esame di coscienza, riconosco e concludo che l’unico motivo, plausibilmente valido per cimentarmi e legittimarmi in questa presentazione è rappresentato dal mio essere psichiatra. E non perché il libro tratti di malattie di mente e malati psichici, ché anzi tutti i personaggi, protagonisti e non, sono tutti rigidamente sani e perfettamente in grado di intendere e volere, ma piuttosto perché lo psichiatra come medico della psiche, o dell’anima, con un termine forse troppo grande e roboante, passa, trascorre la propria vita in mezzo alle emozioni, ai sentimenti, alle passioni, alle sofferenze, molte, e alle gioie, poche, ai pensieri, ai tormenti, ai rimorsi, ai pentimenti, degli altri, dei suoi pazienti e naturalmente anche i suoi, di se stesso. E questi moti dell’animo, questi sentimenti, sono proprio i veri protagonisti del libro di Nicola, i protagonisti che rimangono nell’ombra, timidi, pudichi, vergognosi, modesti, ma non per questo meno presenti ed importanti, meno dignitosi e meritevoli di venire allo scoperto. Anzi proprio per questo, per questa loro modestia e umanità, sono tanto più meritevoli, dignitosi e onorevoli. I sentimenti di Domenico, di Saverio, di Raùl, di Rosa, i personaggi principali del libro, ma anche di Graciela, la infermiera-governante, del dottor Serrano, di Sofia fidanzata di Raul, di Pasquale e di Beatrice, dello Zio Giovanni e dei genitori di Domenico, di Tony il fuochista della Principessa Mafalda, il transatlantico che recò Domenico in Argentina e che solo l’anno successivo si inabissò, di Emilia moglie di Saverio e madre di Raùl, di Teresa, la eterna fidanzata di Domenico, del padre di Saverio Don Vincenzo e della tragica fine del cavallo Lampo, di Assunta, la governante di Saverio, primo infantile amore di questi, escono dal libro, dalla narrazione, dalle azioni dei suoi personaggi e vivono di vita propria, autonoma, indipendente e conferiscono una profonda e sincera dignità umana alle figure che li agiscono e li vivono entro di sé. E la stessa identica umanità affettiva promana anche dagli oggetti inanimati, dalle cose, non più semplici oggetti, ma esistenze viventi, dotate anche esse di sentimenti: in primis i sigari di Domenico, da sempre della stessa marca e confezionati in preziosissime scatole da 25 pezzi. “Fumare un sigaro è per me un momento di riposo. Mi rilassa. Insomma mi provoca uno stato di benessere mentale. Quando lo fumo mi abbandono ai pensieri, ai ricordi, ai momenti più importanti della vita. Oggi sentivo il bisogno di ricordare.” E assieme a questi il caffè, da consumarsi mai in piedi e frettolosamente, come gli stranieri: “Io il caffè lo prendevo stando seduto al tavolo, con calma, fermando il tempo…”. Un tuffo al cuore e il magico e miracoloso riaffiorare di emozionanti ricordi personali mi ha colpito all’improvviso quando ho letto nel libro, di una fiammante macchina sportiva, la “prima versione coupé della FIAT 1100 turismo veloce, con gli interni di colore bianco”, sogno delle mie fantasie e desideri infantili.

La stessa casa di Domenico Labriola, in un quartiere elegante di Buenos Aires, viene umanizzata, quando per spiegarne e giustificarne lo stato di abbandono legato e conseguente alla crisi economica che imponeva ristrettezze, è paragonata ad una bella donna dai felici e gloriosi trascorsi: ”Era pur sempre una bella casa in un quartiere raffinato della città, ma appariva senza trucco, un po’ spenta, come una vecchia attrice di avanspettacolo andata in pensione”. Ma non posso concludere questo discorso sugli oggetti inanimati, ai quali viene concessa, regalata un’anima per la quale, grazie alla quale vivono di vita propria, di sentimenti propri, senza nominare, senza citare la fisarmonica di Saverio, la fisarmonica alla quale Saverio, novello sposo affida le note della Cumparsita, e con essa della Sua nostalgia e della Sua struggente tristezza della quale, solo in fine ci verrà resa ragione:”Finito il Tango, Saverio si avvicinò all’orchestra, prese la fisarmonica, regolò la lunghezza delle cinghie e la sistemò ben aderente al torace. Appoggiò la guancia sul bordo della tastiera, chiuse gli occhi e con una leggera pressione del mantice iniziò a farla vibrare generando una manciata di note. Poi una pausa….La suonava con gli occhi chiusi, aveva la fronte imperlata ed era concentrato. Nel guardarlo bene però, mi resi conto che l’espressione del suo volto tradiva un certo distacco da tutti noi che lo ammiravamo piacevolmente sorpresi. Cosa stava pensando Saverio? A chi stava rivolgendo quella musica? Me lo domandai più volte durante quella esibizione inaspettata ma non trovai risposta”.

E Domenico Labriola non troverà risposta nella Sua vita terrena, forse in quella ultraterrena, se esiste. Noi invece la troveremo, inaspettata, improvvisa, commovente, imprevedibile, nelle ultime pagine del libro. Ma forse no. Forse Domenico, senza neppure rendersene conto la risposta angosciante alla Sua domanda la conosce già, l’ha intuita, l’ha compresa ascoltando il sogno di Raùl, il figlio di Saverio, sogno che non richiede le dotte pagine di Sigmund Freud, per comprenderne il significato, ma che Domenico non vuole rivelare al Suo interlocutore e forse neppure a se stesso, perché troppo doloroso, troppo triste, troppo difficile da accettare. Le note che Saverio affida alla fisarmonica, mi richiamano alla mente le note del pianoforte, suonate da uno sconosciuto musicista e protagoniste dell’ultimo dei Racconti di Dublino di James Joyce, “The dead”. Ma molti altri richiami letterari, almeno per me, sono presenti nel libro di Nicola, ai libri che mi sono più cari e più vicini: in primis “La ricerca del tempo perduto” di Proust, e a seguire il libro “Cuore” di Edmondo De Amicis, “Il Giardino dei Finzi Contini” di Bassani, “La Cittadella” di Cronin, “Shosha” di Singer, “Il deserto dei Tartari” di Buzzati, “Piccoli amori” di Werfel, “Il buio oltre la siepe” di Lee, ma non meno importanti dei primi, anche i richiami e rimandi a film che hanno lasciato il segno nella mia esistenza: “Il pianista sull’oceano”“Una gita scolastica”, “Amici miei”, “La famiglia”, “Titanic”, “Il grande freddo” e, primus inter pares, “Il posto delle fragole” di Bergman.

Lascio ai Lettori la curiosità e il merito di scoprire, ne “Cumparsita”, la presenza e l’eco di queste Opere indimenticabili. Ma non posso concludere queste poche, noiose righe, senza citare, non senza commozione, l’incontro di Domenico Labriola, sul “Principessa Mafalda” la nave che lo porta a Buenos Aires, con “ un signore di mezza età, con pizzo, vestito di grigio se ne stava appartato a guardare l’orizzonte. Sembrava assorto in chissà quali pensieri, però improvvisamente si voltò e ci vide.”. Quell’Uomo era Luigi Pirandello, il mio mentore. Ringrazio Nicola per aver scritto questo libro ed aver concesso a noi il piacere di leggerlo e di commuoverci con esso.

Domenico Mazzullo

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