Milonga all’Alvarez – “Cumparsita”

In quell’ospedale eravamo tutti vecchi. Era un centro specializzato per la terza età. Io mi trovavo nel reparto di cardiologia al terzo piano. Dal quarto al sesto, invece, c’erano i reparti delle donne. In fondo al corridoio si trovava la sala mensa, al lato opposto una grande veranda dove, nelle giornate di sole, ci facevano trascorrere qualche ora. Mancavano pochi giorni e mi avrebbero fatto uscire insieme a Simòn che si era rimesso definitivamente da quel delicato intervento. Voci di corridoio davano per certa anche l’uscita dall’ospedale di Javier Moreno, un vecchietto arzillo, nonostante due interventi al cuore subiti negli ultimi due anni. Erano tutti eventi da festeggiare. Javier era una mia vecchia conoscenza. Lui come me, amava ballare. Tante volte c’eravamo incontrati nelle confiterias. Più che del tango però lui era un vero ballerino di milonga. E quando la ballava, non passava inosservato. Abbracciava donne quasi sempre più di alte di lui, le dominava dal basso con guida sicura. Era fantasioso e sapeva giocare con il ritmo della musica suscitando gli applausi degli spettatori. Era soprannominato il Rey del traspié. Si divertiva a ballare tra tempi e controtempi. Proprio parlando con lui mi venne quella fantastica idea. Una  milonga all’Alvarez. Volevamo rendere indimenticabile la fine di quell’anno. Far divertire tutti. Quella sera la cena fu speciale. Sui tavoli c’erano fiori profumati e candele dorate disposte con cura. Le infermiere di turno portarono dolci fatti in casa e trascorsero la serata con noi. La sala della mensa ci appariva come un ristorante di lusso e noi, per quell’occasione, indossammo vestiti eleganti. Mandai Raúl a prendere il mio doppio petto grigio antracite, quello che indossavo nelle serate importanti. Nonostante non mi andasse più come una volta, guardandomi allo specchio ritrovai il fascino del tanguero di sempre.

Le donne dai piani sopra scesero in gruppo. Noi le aspettavamo in sala, pronti a spostare le sedie per farle accomodare a tavola. Erano elegantissime. Ci tenevano a fare bella figura dopo aver ricevuto i nostri biglietti d’invito. Le infermiere restarono a bocca aperta, non credevano ai loro occhi. Alla fine della cena avvenne qualcosa di straordinario. La musica di un tango invase la sala. Erano le note inconfondibili di mi noche triste del grande Carlos Gardel, quello che recitava l’amore sentimentale e nostalgico. Per un attimo tutti si fermarono, il mormorio si spense. Io e Javier ci guardammo, compiaciuti di com’eravamo stati capace di organizzare quella magnifica sorpresa. Restarono tutti in silenzio ad ascoltare, come ipnotizzati, quella canzone, poi, seguì Recuerdo. La voce di Alberto Castillo funzionò come richiamo per le allodole. Iniziarono ad alzarsi uno a uno, curiosi di sapere da dove provenisse quella musica. Uscirono dalla sala e s’incamminarono lungo il corridoio fino alla veranda. La trovarono trasformata in un’autentica milonga. Su ogni tavolino c’era una rosa rossa e le pareti erano addobbate con festoni colorati. Sembrava di vivere un sogno. Ballammo tutta la notte. A mezzanotte ci affacciammo in terrazza. Tutti insieme urlammo addio all’anno vecchio, come se davanti ne avessimo tanti altri. Accogliemmo così quello nuovo. Buenos Aires impazziva di luci e rumori ma nel barrio Flores, dal terzo piano di quell’ospedale, eravamo noi a illuminare il mondo con le nostre speranze e le stelle filanti che a sorpresa ci regalò Raúl.

(Milonga all’Alvarez – tratto da “Cumparsita”)

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