Intervista a Nicola Viceconti, ultimo scrittore engagé: l’impegno civile di chi è intellettuale fino in fondo – ILSudEst

Fonte: IlSudEst – Articolo di Maddalena Celano

Nicola Viceconti, scrittore, sociologo, laureato in Sociologia e in Scienze della Comunicazione, appassionato di storia e cultura rioplatense con particolare riferimento alla tematica dei diritti umani. Autore di quattro romanzi, tre dei quali pubblicati contemporaneamente in Italia e in Argentina, distribuiti anche a Cuba (distribuzione Artex) e in Cile (Concepción, libreria “Nuestra América”). Dal 2008 al 2010, socio della Camera di Commercio Italo Argentina. Attualmente socio di 24 marzo Onlus, associazione dedicata al sostegno dei familiari dei desaparecidos.

L’omertà riguardante i tragici avvenimenti del periodo della dittatura argentina coglie diversi aspetti: in primis le smentite del potere su quanto stava avvenendo e il silenzio sociale indotto dallo Stato.

Prima di parlare della strategia propagandistica del governo militare nel periodo della dittatura è bene precisare che la storia dell’Argentina dal 1976 al 1983 fu segnata da una serie interminabile di violenze, soprusi e violazione dei diritti umani, che può essere considerato il prolungamento di quella che è la storia di quel periodo in quasi tutto il continente sud americano. Uno degli obiettivi principale di tale disegno politico era quello di cancellare ogni forma di opposizione e di pensiero alternativo a quello dominate. In pratica si trattò di una vasta operazione di politica estera, denominata Piano Condor, messa in atto dall’establishment dei servizi segreti U.S.A. alla fine degli anni settanta. L’operazione era volta a tutelare la classe dirigente in tutti quegli stati sudamericani nei quali il pensiero socialista e comunista erano ritenuti influenti.

Per quanto concerne le smentite del potere su quanto stava avvenendo in Argentina, la Giunta militare ha saputo sapientemente manovrare l’opinione pubblica con un’apposita propaganda attraverso tutti i mezzi di comunicazione di massa. Un’operazione strategica che ha raggiunto il suo apice in occasione dell’evento sportivo dei mondiali di calcio del 1978. Per immaginare quanto fosse collaudata la macchina propagandistica del regime è utile riportare l’esempio di quello che accadde nel 1979, in occasione della visita nel paese della Commissione interamericana dei Diritti Umani (CIDH) a seguito di denunce e fughe di notizie sul dramma dei desaparecidos. Il ministero dell’interno governato dal generale Harguindeguy predispose un piano di distribuzione di manifesti recanti la dicitura “Los argentinos somos derechos y humanos”[1].

Lo slogan era stato ideato, dietro richiesta della Giunta, dall’impresa Burson Marsteller nel 1978 per migliorare l’immagine di Videla. L’obiettivo della propaganda in questo caso, oltre a contrastare le voci che provenivano dall’estero sulla questione dei desaparecidos, campagna che la dittatura definì “anti argentina”, o meglio, anti-nazionalista ed anti-patriottica, puntava altresì a neutralizzare le denunce dei sopravvissuti dei centri clandestini di detenzione e delle associazioni impegnati nella difesa dei diritti umani. In questo modo furono occultati i delitti commessi dal terrorismo di Stato e fu messo in atto il tentativo di diffondere tra il popolo la sensazione di legalità e normalizzazione.

 

L’identificazione alienata delle persone con questo mandato di silenzio e la necessità personale di osservare il silenzio dopo la situazione traumatica del Golpe. Durante la dittatura la forza alienante aveva una grande potenza data dalla situazione di terrore che il potere aveva creato, e questo ha permesso al potere stesso di dilatare ed estendere la sua azione repressiva per molto tempo, prima che si potesse formare una coscienza collettiva di opposizione. L’assenza di pene contro questo genere di crimine e la presenza costante, per diversi anni, da parte dello Stato, di fattori come l’ impunità, lasciò aperta la possibilità di riattivazione periodica dei vissuti di abbandono, che funzionarono come fattori devastanti della psiche. Quando si prescrive l’occultamento, il lavoro elaborativo non evolve.

 

La dittatura si instaurò sulla scena politica del paese in modo quasi atteso dalla maggioranza della popolazione con l’assunzione del potere da parte di una triade di comandanti: il tenente generale Jorge Rafael Videla, l’ammiraglio Emilio Eduardo Massera e il generale di brigata Orlando Agosti. Il controllo della Giunta militare significava, tra le altre cose, lo smembramento del Parlamento, dei partiti politici e l’annullamento di tutte le attività politiche e sindacali. Inoltre, l’instaurazione del regime prevedeva la sottomissione della giustizia dei tribunali ordinari, la censura, l’abolizione della libertà di stampa e di espressione. Tutte  misure restrittive che caratterizzarono in poco tempo il cosiddetto “Proceso de reorganización nacional”[2] che aveva come obiettivo finale l’installazione di un sistema economico neoliberista e l’eliminazione della sovversione grazie ad un meccanismo in parte già sperimentato in altri paesi del Cono Sur : la sparizione sistematica e forzata di tutti gli oppositori politici.

Il potere, che si è concluso dopo un periodo di circa sette anni, si impose, dunque, grazie ad un iniziale consenso ottenuto in alcuni ceti sociali. Si trattava di quella parte della popolazione che vedeva nell’avvento dei militari una risoluzione alla crisi sociale economica e politica che da alcuni mesi stava investendo il già traballante governo di Isabel Martínez de Perón. In realtà era una crisi indotta grazie ad un disegno preparatorio capace di “destabilizzare per stabilizzare”, una metodologia che provocò i suoi effetti il 24 marzo del 76 quando, in pratica, il generale José Rogelio Villareal disse a Isabelita: “Signora, le Forze armante hanno preso il controllo politico del Paese. Lei è in arresto”.

Successivamente il potere dilaga ed estende la sua azione repressiva grazie alla diffusione capillare del terrore in ogni ambito della società civile. Il numero sempre maggiore deidesaparecidos e le prime sporadiche testimonianze di qualche sopravvissuto ai terribili centri clandestini di detenzione erano funzionali ad un disegno perverso del regime che aveva lo scopo di “mettere in guardia e scoraggiare” ogni argentino su eventuali dissensi.

L’annullamento della persona attraverso tecniche appositamente elaborate da corpi speciali delle tre forze armate, prevedeva il sequestro, la pratica della tortura e l’eliminazione fisica attraverso i cosiddetti voli della morte. In “Due volte ombra” e “Nora Lopez, detenuta N84” descrivo alcune pratiche impiegate nei Centri di detenzione -in particolare l’ESMA Scuola di meccanica dell’Armata e il Club Atletico- veri e propri  gironi danteschi che, come ricorda il PM Francesco Caporale nella prefazione al mio ultimo romanzo, “nulla avevano da invidiare ai lager di nazista memoria”.

Le persone colpite dal dramma della scomparsa di un familiare restarono isolate e vennero additate dal regime così come dagli stessi vicini di casa o conoscenti che quasi sempre, per paura di essere coinvolti in ritorsioni, prendevano le distanze con un cinico “Por algo serà” [3].  Tranne il coraggio delle madri e dei familiari dei desaparecidos, delle associazioni impegnate nella difesa dei diritti umani e della chiesa terzomondista, una cappa di silenzio pesava sugli oltre 350 tenebrosi campi di concentramento sparsi per tutto il paese.

La storia dell’Argentina di quegli anni è la storia simile a tutti i regimi dittatoriali attraverso i quali alcuni uomini hanno imposto ai propri simili folli ideologie, pregiudizi, fanatismi, integralismi politici o religiosi. Almeno nella sua prima fase (fino al ’79) si è trattato di regime totalitario quasi perfetto in cui lo stato e la società civile coincidevano e dove, in forma non trascurabile, è stato fondamentale la connivenza di alcuni esponenti di spicco della chiesa cattolica. In un simile scenario, la reazione della popolazione è stata quella tipica di tutti i sistema totalitari: un’opinione pubblica assopita, impossibilitata all’azione, generatrice di un consenso involontario o, come sosteneva Hegel, “iperrazionale”. La vera formazione di una coscienza collettiva di opposizione maturerà soltanto dopo il fallimento del conflitto con l’Inghilterra per il dominio delle isole Malvinas.

Con la sparizione di trentamila persone, un milione e mezzo di profughi, cinquecento bambini adottati illegalmente e migliaia arresti politici, la società civile argentina ha vissuto un cambiamento radicale della propria identità. Una mutazione scaturita da un’alienazione fisiologica che per sette anni l’ha vista estraniarsi da se stessa.

La fine del periodo dittatoriale e l’arrivo della democrazia con il governo di Alfonsin nel 1983 non segnano, di fatto, l’annullamento della forza dei militari. Colpi di coda del loro potere ormai ramificato e assimilato si registrano per anni successivi. Basti pensare all’emanazione di apposite leggi (Obbedienza dovuta e Punto Finale) con le quali i militari, grazie anche agli indulti del 1989/90 ottenuti con la presidenza di Carlos Menen, si sono garantiti l’impunità per oltre venticinque anni.

Diversa è la situazione attuale dell’Argentina che, dopo aver abrogato tali leggi, ha intrapreso un serio percorso di ricostruzione della memoria e giustizia portando sul banco degli imputati gli artefici di simili delitti. Credo che la verità possa essere raggiunta tenendo presente il binomio memoria e giustizia, un invito ai cittadini a mantenere viva la memoria per ottenere la giustizia tanto attesa e desiderata, escludendo il sentimento di vendetta, come più volte ricordato dalle Madri e le Abuelas de Plaza de Mayo e come dichiarato da Eduardo Galeano in una sua intervista: “L’unica maniera per evitare che la storia si ripeta è facendo giustizia (chiudere i conti con il passato). La giustizia non è vendetta. E’ il sano ossigeno che il corpo sociale richiede per non tornare ad inciampare sugli stessi sassi, a cadere nelle stesse buche e a commettere le stesse atrocità”.

In un’epoca sempre più distratta, dove molto spesso la memoria viene confusa con la storia e dove i politici di turno propongono sbrigativi processi di riconciliazione nazionale, tale impegno costituisce un esempio dinanzi a tutto il mondo di perseguimento della verità. Si tratta del recupero del vissuto collettivo di un paese che i filosofi tedeschi all’inizio del novecento individuavano con il termine Erlebnis. Esperienza vissuta di un popolo, ricomposta e compresa attraverso le storie di vita di chi era allora protagonista. Nessuno sconto alla “memoria dovuta”, quindi, è uno degli pilastri di questa straordinaria forza dell’Argentina di oggi che vuole lasciare alle generazioni future l’eredità di un ricordo spesso disperato, sicuramente sconvolgente, ma rinnovabile e per questo educativo e non fine a se stesso. Facendo riferimento a quanto affermato da Habermas sui crimini indicibili commessi nella Germania nazista e sul dovere di mantenere vivo il ricordo della sofferenza di coloro che sono morti per mano tedesca, concludo questa mia breve riflessione con una sua frase densa di significato sulla memoria: “La forza liberatrice del ricordo non deve servire ad estinguere il potere del passato sul presente, bensì ad estinguere un debito del presente verso il passato”.

Nel tuo caso, il proposito letterario si è sviluppato intorno ad argomenti legati a forme di totalitarismo, alle repressione del pensiero alternativo, alla prigionia: non hai mai sperato di fare con la letteratura ciò che bisogna fare con la lotta sociale affinché l’una non sostituisca né sia un’alternativa rispetto all’altra?

Nonostante alcuni filosofi considerano tramontato il modello sartriano sul ruolo dello scrittore, in particolare sul costante impegno di quest’ultimo nella società e nella storia, personalmente conservo una certa nostalgia per quanto proponeva il famoso filosofo a riguardo. Forse proprio per questo motivo cito nel mio ultimo manoscritto una delle sue opere pubblicata nel 1948 (“Le mani sporche”, che sicuramente è un testo emblematico per comprendere il suo pensiero sul ruolo dell’intellettuale). Lo faccio attraverso il personaggio stesso del romanzo, Helene Sanz, un’anziana diva di teatro, anche lei di fronte al dilemma del suo ruolo sul palcoscenico

Certamente le condizioni storiche e soprattutto le forme tradizionali dell’arte e della cultura sono profondamente mutate in questi ultimi decenni, così come è cambiato il rapporto editore-scrittore-lettore, ma resta ancora valido il concetto di impegno dell’artista in generale. Credo che, come sosteneva Sartre, uno scrittore dovrebbe “contribuire a produrre determinati cambiamenti nella società che lo circonda” e che la sua eventuale posizione rispetto a determinati fatti politici sia indipendente e non strumentale “ovvero non servirà alcun partito…/… si sforzerà invece di impiegare la concezione dell’uomo” .

L’impegno, pertanto, sarà relativo al sociale, critico verso quella “irresponsabilità”, che la concezione sartiana ha sempre denunciato. Personalmente credo che la letteratura svolga anche questo compito di lotta sociale dove per “lotta” s’intende un risveglio delle coscienze su talune problematiche di interesse collettivo. Nel mio caso l’idea di scrivere storie tra finzione e realtà è venuta dopo aver assistito alcuni anni fa alla facoltà di Scienze della Comunicazione a una “sfida culturale” tra scrittori italiani e argentini. In realtà si trattava di un confronto tra le diverse concezioni della letteratura. Da Buenos Aires partecipava Maximiliano Tomas un giovane giornalista-romanziere con un interessante intervento dedicato ai generi letterari. La letteratura in Argentina, diversamente da quella statunitense o europea, ha sempre viaggiato su un sentiero parallelo a quello della realtà socio-politica del paese. Potremmo dire che è stata una letteratura “d’avanguardia”, “sperimentale” modellata su un uso quasi costante della metafora. Un esempio per tutti è quello la scrittrice Luisa Valenzuela che ha osservato la realtà degli anni settanta attraverso la lente dell’ironia, del grottesco e dello humor. L’autrice ha scritto uno dei suoi libri più belli (“Aquí pasan cosas raras”, ambientato nell’Argentina della Triple A) recandosi nei caffè, ascoltando le storie terribili che raccontava la gente. Tutto quello che assorbiva, lo metaforizzava e lo elaborava utilizzando l’umorismo e il grottesco. A quei tempi -dice l’autrice- “era impossibile raccontare una storia così dolorosa e forte nella sua immediatezza”. Cito questo esempio per dimostrare che la letteratura argentina opta, a differenza di quella occidentale, per una rappresentazione della violenza simbolica, fantastica e onirica, privilegiando la dimensione irrazionale dell’incubo e del delirio, anziché quella “testimoniale” prettamente documentaristica.

Eppure possiamo pensare che in entrambi i casi, la letteratura possa svolgere un ruolo sociale, politico, orientato alla ricerca della verità. Quello che cambia tra i due paradigmi è il diverso significato del concetto di “finzione”. L’America latina per anni si è caratterizzata dall’essere la patria del “realismo magico”, dove la presenza di elementi “magici” sono fusi in contesti narrativi realistici. E la causa principale è da ricercare sostanzialmente nelle conseguenze derivanti dalle censure dei regimi. Certamente, negli anni immediatamente successivi alla dittatura, la letteratura argentina si propone come strumento efficace per riparare al trauma di una società svuotata di senso dall’inumana tecnologia della desaparicion. Essa cerca di organizzare nuovi modelli interpretativi della società rispetto a quanto il regime aveva imposto, evitando ogni forma di realismo poiché ritenuto inadeguato a esprimere accadimenti che andavano oltre ogni realtà immaginabile. Anche la morte dei desaparecidos viene trattata con i linguaggi del simbolico, i soli capaci di generare senso, di interpretare “un reale” che ha perduto la possibilità di essere compreso attraverso codici espressivi tradizionali. Non solo denuncia, indignazione e condanna morale, ma una letteratura impregnata di metafore, allusioni, ambiguità. Tutto ciò per arrivare al rifiuto di una verità unica che era quella imposta dalla dittatura.

Credo che oggi in Argentina, dopo trent’anni di democrazia, stia emergendo una nuova forma letteraria che non farà più esclusivo ricorso alla metafora, ma si calerà nella realtà utilizzando nuovi modelli narrativi. Ciò ha comportato un avvicinamento tra il genere del “reportage narrativo”, in cui soggettività e creatività interpretativa, ancorate al reale, si costituiscono come preciso strumento informativo ed il “romanzo ad ambientazione storica” che sfocia in una narrazione di fantasia spalmata su un preciso contesto storico. Entrambi assolveranno ad una funzione sociale della scrittura che, se non interventista-esplicativa dei fenomeni o fatti storici indagati, almeno li descrive.

Concludo sostenendo che questa maniera di scrivere rappresenta una modalità utile per raccontare la complessità sociale soprattutto alle nuove generazioni. Nel “romanzo ad ambientazione storica” che caratterizza il mio genere letterario, la realtà dei fatti raccontati è irrilevante. Ciò che resta vero è il contesto umano e sociale di un racconto di pura fantasia che si converte in realtà. Ne deriva che “il nostro compito di scrittori è rappresentare la realtà e testimoniarla” come affermava Sartre.

I familiari delle persone che sono state sequestrate hanno avuto, in seguito agli avvenimenti, comportamenti e conseguenze psichiche ed emotive legate al trauma: forme di psicosi, forme depressive ed ossessioni. La sparizione implica una presenza-assenza che si mantiene per molto tempo. Il riconoscimento razionale della morte dei figli, fratelli o genitori, non evita il dilazionarsi di questo primo periodo di sofferenza. Per di più, nella stragrande maggioranza dei casi, la privazione delle spoglie per la sepoltura rappresenta una aggravante nella elaborazione del dolore dovuto alla scomparsa della persona amata. Difatti il rito funebre esiste in ogni cultura ed è essenziale per l’ elaborazione simbolica della morte.

La metodologia perversa della desapareciòn, prima ancora della scomparsa fisica, prevedeva la cancellazione dell’identità delle persone coinvolte. Come ho accennato in precedenza, ciò avveniva attraverso l’impiego di procedure operative che iniziavano al momento del sequestro del malcapitato e del suo ingresso nel centro di detenzione. L’attribuzione di un numero al posto del nome e del cognome era il primo esempio dell’annullamento dell’identità. Una volta all’interno del campo di concentramento, il prigioniero si lasciava di colpo alle spalle la sua vita reale ed entrava in un mondo “sospeso”, nel quale veniva obbligato a percorrere un processo di svuotamento della propria identità senza lasciare tracce. I sequestrati erano considerati corpi senza identità sui quali applicare le più brutali tecniche di tortura e le peggiori vessazioni, prima di essere trasformati indesaparecidos, ossia morti senza cadaveri.

Durante la prigionia i detenuti erano costretti dai loro carcerieri a stare con gli occhi permanentemente bendati. Questo è uno dei ricordi comuni a tutti i sopravvissuti. L’oscurità si traduce in una condizione capace di provocare la perdita di ogni riferimento conosciuto. Le tecniche di castigo ai quali venivano sottoposti erano pianificate in modo asettico e avevano come obiettivo quello di spezzare l’individuo, distruggerlo come persona e creare un soggetto nuovo. Prima di farli sparire, i prigionieri dovevano essere trasformati. E questa disumanizzazione dello svuotamento della persona, avveniva principalmente attraverso la tortura. Alla maggior-parte dei prigionieri, infine, toccava la triste sorte del “trasferimento”. Una pratica associata alla morte, ma come ricorda la professoressa ……… “non una morte qualsiasi, bensì una morte nella quale quello che stava per morire non aveva alcuna partecipazione”. Per loro era come morire essendo già morti.

Con queste modalità è stato progettato e attuato l’ennesimo genocidio contro l’umanità. Raphael Lemkin, l’avvocato polacco che coniò tale termine, lo definì: “un crimine questo contro il diritto della gente, sia commesso in tempo di pace sia durante la guerra”. Ciò che ha reso ancora più orribile il dramma dei desaparecidos consiste nel fatto che il crimine sia stato commesso dallo Stato. Si tratta della forma di terrorismo più grave in quanto eseguito dalle stesse istituzioni che hanno il dovere di garantire ogni forma di tutela nei confronti dei propri cittadini. Una deriva dello stato di diritto che, in quegli stessi anni, ha interessato altri paesi del Sud America.

A distanza di tanti anni dalla fine della dittatura, ancora oggi in Argentina è vissuto come un atroce trauma il fatto che il metodo della desapareciòn ha reso impossibile la memorabilità della morte. I corpi gettati in mare sono stati sottratti al sepolcro, luogo deputato per elaborare il lutto, e hanno subito la violazione della desacralizzazione. Ciò ha reso ancora più tortuoso il percorso della memoria, volta a recuperare quello che si è perduto.

 


[1]“Noi argentini siamo rispettosi del diritto e umani”

[2]“Processo di riorganizzazione Nazionale”

[3]“Per qualche motivo sarà accaduto”.

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